Di solito i sostenitori della legge costituzionale ripetono
come un mantra due obiettivi enunciati nel suo titolo: la «riduzione del numero
dei parlamentari» ed il «contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni». É incontestabile che mentre oggi il Senato della Repubblica si
compone di 315 senatori (più i senatori a vita), il nuovo Senato riformato avrà
una composizione di 100 senatori. Questi, peraltro – aggiungono i fautori della
riforma – proprio perché non sono eletti direttamente dal popolo continueranno
a gravare, dal punto di vista dei costi economici, sui Consigli regionali di
cui sono rappresentanti.
Per essere precisi, nel titolo della legge costituzionale si
parla di numero di parlamentari (in genere); ma la riforma lascia immutata la
composizione della Camera dei Deputati. Continueranno ad essere eletti 630
deputati, tra i quali dodici nella circoscrizione Estero (istituita con legge
costituzionale n. 1 del 2001). Da tempo si discute se la composizione della
Camera dei Deputati non sia sovradimensionata. Seicentotrenta deputati sembrano
effettivamente un pó troppi, a fronte di una popolazione della Repubblica
italiana quantificata in 60 milioni e 795 mila abitanti (dati Istat aggiornati
all'1 gennaio 2015). Per fare qualche comparazione, il numero dei membri del
Bundestag, in Germania, è attualmente di 630, ma la popolazione tedesca si
attesta intorno a 82 milioni di abitanti. Inoltre, tale numero è variabile; in
teoria, la composizione normale sarebbe di 598 membri. Non sembra invece
possibile un confronto con la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti; qui,
per una disposizione di legge degli inizi del ventesimo secolo, il numero dei
membri con diritto di voto è stato fissato in 435, ma tale quantificazione
stride con il fatto che la popolazione degli Stati Uniti ormai supera i 310
milioni di abitanti.
Nel progetto di riforma della Costituzione approvato da una
maggioranza parlamentare di Centro-Destra e respinto dal Corpo elettorale nel
Referendum del 25-26 giugno 2006, la composizione della Camera dei Deputati era
fissata in 518 deputati. Ovviamente, nel quantificare il numero dei deputati
occorre tenere conto anche delle caratteristiche della legge elettorale. Se, ad
esempio, s'intende eleggere tutti, o la maggior parte, dei rappresentanti del
popolo in collegi uninominali (un deputato per ciascun collegio), allora
bisogna preventivamente decidere la cifra di abitanti che si ritiene ottimale
come dimensione media del collegio.
Perché si è lasciata invariata la consistenza della Camera?
C'è una ragione precisa. I lavori parlamentari per l'approvazione della riforma
costituzionale sono stati avviati contemporaneamente ai lavori parlamentari per
l'approvazione della nuova legge elettorale (cosiddetto "Italicum").
La prima lettura della riforma costituzionale si è conclusa al Senato l'8
agosto 2014 e alla Camera il 10 marzo 2015. Inoltre, in prima lettura, la
Camera ha modificato sensibilmente quanto prima approvato dal Senato. Ciò ha
comportato nuove modifiche da parte del Senato, approvate il 13 ottobre 2015 e,
più in generale, ha comportato un dilatarsi dei tempi di esame (tre letture da
parte di ciascun Ramo del Parlamento), affinché si stabilizzasse un testo
conforme.
La legge elettorale, fortemente voluta dal Governo Renzi, è
la legge 6 maggio 2015, n. 52. "Fortemente voluta", al punto che il
Governo, per superare le ultime resistenze della Camera dei Deputati, ha posto
ripetutamente la questione di fiducia. I docenti di diritto costituzionale
hanno dibattuto, in tempi non sospetti, se fosse ammissibile un voto di fiducia
in materia di legge elettorale (che fissa le regole del gioco democratico), sia
pure per superare l'ostruzionismo delle opposizioni. Il problema è stato risolto
nella prassi. Si vedano i resoconti delle sedute della Camera numero 418 e 419,
rispettivamente del 29 e del 30 aprile 2015. Per il Governo Renzi non era
possibile che il Parlamento discutesse liberamente la questione della
composizione della Camera dei Deputati, in sede di riforma della Costituzione,
perché qualunque ipotesi di modifica dell'articolo 56 Cost. avrebbe rimesso in
discussione l'impianto della legge elettorale. Il Governo voleva proprio quel
tipo di legge elettorale, con quegli esiti ultramaggioritari, e non altre leggi
elettorali astrattamente possibili.
Considerato che la riforma assegna soltanto alla Camera il
compito di accordare la fiducia al Governo (art. 94 Cost., come modificato
dall'articolo 25 del testo), appare tanto più illogica la scelta di non
prevedere l'elezione popolare diretta dei senatori. Si crede davvero alla
favola che si è così deciso per risparmiare la spesa delle indennità
parlamentari? In ogni caso, se si puntava sull'elezione indiretta, erano
rinvenibili nell'esperienza europea soluzioni collaudate e razionali: ad
esempio, il Bundesrat, in Germania, non è elettivo, ma è costituito dai
delegati dei Länder, cioè delle regioni; i delegati di ogni Land non votano
ciascuno come gli pare, ma esprimono un unico orientamento conforme
all’indirizzo politico di chi, nel dato momento, governa il Land.
Si ricordi, e non è un dettaglio, che questa riforma
costituzionale nasce da un disegno di legge d'iniziativa governativa (DDL n.
1429, Atti Senato, a firma del Presidente del Consiglio dei Ministri, Renzi, e
del Ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento,
Boschi). In un mondo ideale, sarebbe meglio che il Parlamento fosse
protagonista degli aggiornamenti della Costituzione (la legge delle leggi) e
che il Governo mantenesse un atteggiamento defilato e rispettoso dei lavori
parlamentari. Come fece il Presidente del Consiglio De Gasperi, ai tempi
dell'Assemblea Costituente.
Il nuovo Senato riformato sarebbe composto da 100 membri. Il
numero di cento fa venire subito in mente il Senato degli Stati Uniti.
Qualunque confronto, però, è improponibile. Negli Stati Uniti i senatori (due
per Stato) hanno un peso politico molto rilevante nelle dinamiche politiche
complessive; la campagna elettorale è molto più difficile di quella che devono
affrontare i candidati alla Camera dei Rappresentanti. I senatori restano in
carica per sei anni ed il Senato, a rotazione, rinnova ogni due anni un terzo
dei propri membri.
Nell'esperienza istituzionale italiana, gran parte del lavoro
parlamentare si svolge nelle Commissioni permanenti (differenziate per
materie); alla luce di questa realtà, per noi 95 senatori rappresentanti delle
istituzioni territoriali appaiono davvero pochi. Tanto più, se si considera che
si tratterebbe di senatori part time. A fronte di un numero così
sottodimensionato di senatori rappresentanti delle istituzioni territoriali, i
cinque senatori di nomina presidenziale finiscono per diventare un altro
elemento d'irrazionalità. il Presidente della Repubblica dovrebbe sceglierli
tra cittadini che «hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo
sociale, scientifico, artistico e letterario» (si veda la riformulazione
dell'articolo 59, secondo comma, Cost.).
Questi senatori resterebbero in carica
sette anni e non potrebbero essere nuovamente nominati. E gli attuali senatori
a vita? Le loro prerogative restano regolate secondo le disposizioni finora
vigenti. Il numero complessivo di cinque costituisce un limite per il
Presidente della Repubblica, nel senso che vanno inclusi nel computo anche i
senatori a vita attualmente in carica (si veda l'articolo 40, comma quinto, del
testo).
Il Senato riformato potrà attivarsi efficacemente, nei tempi
ristretti e contingentati che la Costituzione gli assegna, soltanto a
condizione che un suo gruppo interno segua costantemente il procedere
dell'attività legislativa nell'altro Ramo del Parlamento. Per essere realisti,
ci sono soltanto due modi per fare funzionare il Senato: o distaccando in
permanenza a Roma funzionari collaboratori dei senatori, oppure attribuendo
ruoli impropri ai funzionari dipendenti dall'Amministrazione stessa del Senato.
Nell'uno e nell'altro caso, si tratterebbe di sovraccaricare personale non
eletto di responsabilità di scelta politica. Uno scenario che ci conduce fuori
dalla fisiologia della democrazia rappresentativa.
La riforma costituzionale riduce i costi di funzionamento
delle istituzioni molto meno di quanto si vorrebbe far intendere. Ci sono
importanti voci di spesa rispetto alle quali la riforma è ininfluente. Cito, ad
esempio, gli oneri per il trattamento pensionistico degli ex senatori e del
personale dipendente già in quiescenza. Per quanto riguarda il prossimo futuro,
si potrà non concedere ai senatori l'indennità parlamentare; ma sarà impossibile
non riconoscere loro il rimborso per spese di viaggio (con mezzi celeri) e di
vitto e alloggio a Roma. Inoltre, l'apparato burocratico di supporto ha un
costo e non sarebbe logico pensare di operare risparmi rinunciando ad avvalersi
di personale dipendente qualificato. Non a caso, tra le disposizioni finali è
previsto che la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica provvedano
«all'integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante
servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra
forma di collaborazione» (si veda l'articolo 40, comma terzo). Per questa via
si potrà, forse, conseguire maggiore efficienza nella gestione del personale;
ma è difficile che si determinino rilevanti risparmi di spesa.
Nessun rimpianto per la soppressione del Consiglio nazionale
dell'economia del lavoro, che si realizza attraverso l'abrogazione
dell'articolo 99 Cost.; le risorse umane e strumentali saranno destinate alla
Corte dei Conti. Queste sono le uniche disposizioni della riforma che
raccolgono un consenso pressoché unanime.
Va, infine, segnalata una modifica dell'articolo 75 Cost.,
che disciplina il Referendum popolare abrogativo. Mentre, normalmente, il
Referendum è validamente proposto quando lo richiedano cinquecentomila
elettori, o cinque Consigli regionali, s'introduce una nuova ipotesi: che il
Referendum sia richiesto da almeno ottocentomila elettori. In questo caso il
quorum da raggiungere, affinché la consultazione popolare produca gli effetti
giuridici voluti dai promotori, non è più la maggioranza degli aventi diritto
al voto (ossia del Corpo elettorale), ma la maggioranza «dei votanti alle
ultime elezioni della Camera dei Deputati» (si veda l'articolo 15 del testo).
Ad esempio, nelle elezioni per il rinnovo della Camera del 24 febbraio 2013, i
votanti furono poco più di 35 milioni, pari al 75,20 % degli aventi diritto.
Per la validità di un Referendum abrogativo bisognerebbe, quindi, superare la
metà più uno di tale cifra, sempre che i sottoscrittori siano stati almeno
ottocentomila. Si tratta apparentemente di una disposizione di favore per
questo istituto di democrazia diretta; a decidere la fortuna di un Referendum,
tuttavia, è lo spazio informativo che gli organi di informazione di massa
riservano alle ragioni del Sì ed a quelle del No. Senza parità di trattamento,
le possibilità di successo di un Referendum abrogativo sono fortemente
compromesse. Tanto più se verte su questioni scomode per il Governo in carica.
Tutte le considerazioni che ho svolto mi portano a
concludere che questa proposta di riforma costituzionale risponda soltanto ad
interessi politici contingenti e, nel merito, sia piena di difetti; al punto
che potrebbe fare più male che bene alle Istituzioni ed ai cittadini. Consiglio
serenamente di votare NO nel prossimo Referendum costituzionale dell'ottobre
2016. Nessuna paura rispetto ad un'eventuale crisi di governo. L'Italia è
sopravvissuta alla morte di un Presidente del Consiglio che si chiamava Camillo
Benso di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, quando lo Stato unitario era
ancora in culla, figuriamoci se non potrà fare a meno di Renzi.
LIVIO GHERSI
# posted by Nico Valerio @ 22:14