4 giugno 2010

 

Non basta più definirsi "liberali". Le troppe anime del liberalismo italiano

Come nella famosa storiella ebraica, fate una domanda a tre "liberali" italiani a caso: è altamente probabile che su ogni argomento riceviate tre risposte diverse. Come mai?
Mentre è difficilissimo rimetterli insieme, riunificarli, ammesso e non concesso che nella Storia siano mai stati uniti (ripenso alle critiche nel Parlamento torinese del mio avo liberal-democratico Lorenzo Valerio contro un bravissimo Cavour sulla guerra di Crimea, vero motore primo dell'unità d'Italia, che Valerio non capì), non è difficile rispondere sul perché i liberali si ostinino ancora a dividere il capello in quattro ("tricotessarotomisti" li ho definiti nel greco dei neologismi) e si glorino narcisisticamente di avere ciascuno una posizione eterodossa rispetto ad un preteso "pensiero comune liberale" in realtà inesistente, visto che tutti pensano e si comportano così. E’ il più buffo ma anche il più crudele dei paradossi liberali.
Perché, oltre alle accennate componenti psicologiche caratteriali che finiscono per prevalere in club, circoli e partiti dove non vige alcuna "linea ideologica", tantomeno per fortuna alcun controllo autoritario, è lo stesso spontaneismo della sintesi sincretistica delle fonti liberali a determinare lo spezzettamento dei liberali in mille rivoli.
Se passa, in altre parole, il concetto che il liberale vero non debba fare la sintesi tra tutti i "santini del proprio Santuario", cioè tra i grandi personaggi, i filoni culturali, le filosofie e le scelte politiche della propria storia, anche quelli in apparente contrasto tra loro, ma si possa trasformare in innamorato esclusivo e fanatico (che è proprio un atteggiamento illiberale) di Hayek contro Voltaire, di Einaudi o Popper contro Croce, o di Friedman, Giolitti o Gobetti, Cavour o Adam Smith contro chissà chi, e così via, è chiaro che per le innumerevoli sfumature di colore che si otterranno sulla tavolozza, non troveremo mai due liberali uguali tra loro.
Ed è proprio quello che sta accadendo in Italia.
Tanti "liberali" – le virgolette sono obbligo – vuol dire nessun liberale. Semmai, vista l’ulteriore complicazione della naturale faziosità italica a cui faceva riferimento lo stesso padre Dante, più che liberali, li chiameremo propagandisti di Hayek o Friedman, Popper o Gobetti, Keynes (certo: era aderente al Partito Liberale inglese) o Ernesto Rossi, Rawls o Amartya Sen, ma quasi nessun maturo interprete della sfaccettata e complessa idea storicamente definita in sintesi come Liberalismo.
Se qualcuno dovesse avere ancora dei dubbi sul perché i tanti liberali italiani non si sono mai unificati, e anzi più volte invitati a farlo obiettano che gli altri sono indegni di chiamarsi "liberali" perché troppo di destra, di sinistra o di centro, troppo o troppo poco liberisti, berlusconiani o antiberlusconiani, troppo o nient’affatto laicisti, e così via, troverebbe una conferma imbarazzante nell’articolo precedente, che lamenta come sui principali temi del momento i circoli liberali italiani abbiano in realtà posizioni differenziate, dalla laicità dello Stato, all’economia, dal sistema elettorale alla politica estera (la questione d’Israele).

Comments:
Una analisi realistica e impietosa che mi trova assolutamente d'accordo.
 
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