30 aprile 2008

 

Il liberismo e il merito ora rischiano di diventare utopie, come il comunismo

Vi ricordate di quando i liberali della Prima Repubblica (tanto osannati dai nostri nostalgici amici del Pli e Pri) avevano i loro giornalisti Rai, i loro consiglieri negli Enti pubblici o nelle aziende "a partecipazione statale" o municipalizzate, e non nuovevano paglia contro Iri, Eni, Enel, Fs, tantomeno contro i monopoli corporativi di notai, farmacisti, giornalisti, giornalai e tassisti?
In quei "tempi felici", anzi, l’onesto barbone di Bozzi era sinonimo di "senso dello Stato", il crociano Valitutti voleva dire "buona scuola pubblica", e le filippiche di La Malfa tendevano a ridurre il deficit e a far quadrare i bilanci statali. Nessuno di loro, però, si preoccupava di tutelare i consumatori contro i produttori-fornitori di servizi (parafrasi moderna dell’antica contrapposizione cittadino-sovrano), cioè di far funzionare la classica dialettica liberale nel mercato (domanda-offerta interna) così efficiente nei Paesi liberali anglosassoni.
Ma un po' ovunque, anche in quei Paesi, sembra cambiato il clima. D'accordo, i consumatori saranno più intelligenti e agguerriti dei nostri, ma le grandi scelte economiche stanno facendo marcia indietro. Sembrano tornati in auge il protezionismo e un larvato statalismo.

Solo oggi? No, da sempre, a pensarci bene. Sembra quasi che la rivoluzionaria richiesta della libertà dei mercati, quella lotta ai dazi, ai monopoli e ai privilegi economici che aveva accompagnato nel Settecento la lotta del liberalismo per porre limiti al potere assoluto di sovrani e aristocrazie, sia stata poi in parte dimenticata quando i liberali sono andati al potere e sono stati chiamati a governare gli Stati d’Europa e d’America.
Solo di recente, ma più che altro originata dai conservatori anglosassoni (Thatcher e Reagan non erano propriamente liberali), la riappropriazione del liberalismo economico è diventata un leit motiv ricorrente delle politiche liberali dell’Occidente. Non per caso si dice che "l’invidia per le merci" della Germania Ovest abbia spinto i tedeschi dell’Est ad abbattere il muro di Berlino. Lo stesso si può dire per Ungheria, Russia e Cina.
Ma il "liberismo" è ancora più parlato che praticato. Abbiamo visto come sono stati accolti il tentativo di Bersani a sinistra o le dichiarazioni di Capezzone e Della Vedova a destra. Di questo passo, la vera libertà economica rischia purtroppo di diventare un’utopia come il socialismo e il comunismo. E questo per l’azione convergente di due gruppi di pressione che la stritolano: i falsi "amici" e i veri nemici.
Da una parte, data l’origine conservatrice del revival, sta passando tra i media (basta leggere i blog liberisti "neo-con"della rete di Tocqueville) il luogo comune sbagliato, anzi antiliberale, che la libertà di mercato non voglia regole. Mentre, come sa qualunque studente di scienze politiche, proprio il liberalismo è l’inventore su larga scala della "Teoria dei limiti", cioè delle regole, del diritto applicato alle libertà. Perché senza regole, cioè limiti, la libertà diventa sopraffazione di pochi, l’opposto del liberalismo. Del resto, anche il fascismo, anche il comunismo, vogliono la "libertà assoluta" (l’espressione è un ossimoro, tranne per quei prepotenti e autoritari degli anarchici), sì, ma dei loro capi, delle loro elites dirigenti. L’invenzione liberale è, invece, limitare un poco, pochissimo, le libertà, tutte le libertà possibili, purché tutti gli uomini ne possano godere contemporaneamente, senza scontrarsi tra di loro in una sanguinosa e perenne bellum omnium contra omnes che vedrebbe vincitori i soliti pochi. Perciò il liberalismo ha vinto, per questa geniale invenzione di equilibrio e bilanciamento tra tutte le contrastanti libertà.
Il secondo nemico del mercato libero, delle libertà economiche, del merito applicato al commercio, all’industria, agli scambi e alle professioni, è la conservazione dei privilegi, la rivolta delle categorie protette attraverso i sindacati di categoria, le stesse assicurazioni date dai politici ai ceti privilegiati (aziende, professionisti, impiegati) individuati come possibili aree di consenso elettorale, l’azione degli Stati contro la libertà di commercio e la globalizzazione delle merci, con la scusa della "difesa degli interessi nazionali". Non dimentichiamo che due Paesi liberali, come Stati Uniti e Francia, sono campioni nella classifica dei sussidi di Stato agli agricoltori locali, contro gli agricoltori stranieri concorrenti.
Ma se è così, allora di quale "economia liberale", di quale Occidente libero, stiamo parlando? Provate ad andare negli Stati Uniti e a chiedere ad un datore di lavoro di assumervi come attore, imbianchino o cuoco: ne vedrete delle belle. E scoprirete a quali trucchi e requisiti fantasiosi ricorrono i locali sindacati pur di non far lavorare uno "straniero". Spedite ad un negozio del Texas una partita di pecorino sardo e state a vedere che carteggio ne deriva con le Autorità americane, quali sequestri o penali rischiate. Tutto legale, s’intende. Solo che ormai gli Stati "liberali" hanno codificato con la scusa della "protezione dell’igiene" e della "concorrenza" norme così severe ed astruse che rivelano chiaramente la loro volontà di non far entrare la concorrenza.
C’è molto lavoro da fare, insomma, per chiunque si definisca davvero liberale, cioè liberale in tutto e non solo nel campo ristretto che gli fa comodo. Perché tutti, si sa, vogliono "liberalizzare" i campi altrui. E così, non è affatto vero che le libertà sono ormai tutte conquistate ed acquisite in Occidente. Quella che è indiscussa (e pure questa, solo in parte) è solo la libertà di parola. Forse anche la libertà di stampa, talvolta. E poco altro.
Al lavoro, dunque, anche perché se guardiamo all’Italia, né questa finta Sinistra che oggi è perdente (ma su ben altri temi che la libertà), né questa finta Destra che oggi è vincente (ma non certo su temi di libertà), sono liberali. E nel prossimo Governo Berlusconi, infatti, chi andrà all’economia? L’ex socialista e attualmente anti-mercatista Tremonti, oltretutto spalleggiato dalla corporativa Lega Nord, non certo il liberale Martino, docente di economia. Così va il mondo, e capiamo benissimo il pessimismo critico di Giavazzi sul Corriere di oggi ("Il liberismo e la speranza").

Comments:
Sì, penso anch'io che se pure qualche anno fa c'era qualche bella speranza di liberalizzare in profondità, ora nonostante le attese questa speranza è minima...
Capirai... con la destra corporativa al governo...
Alemanno aveva dato ragione ai tassisti... A destra ormai non ci sono più liberali.
 
Pezzo molto opportuno nel far emergere che il liberalismo è l'impegno di ricercare di continuo l'equilibrio di libertà tra i cittadini senza praticare illusorie ricette definitive fuori dal tempo e dallo spazio. Caso mai ci sarebbe da sviluppare qualche ragionamento sulla (per me) evidente disperazione di Giavazzi per aver dovuto realisticamente constatare la completa sconfitta della sua acritica scommessa su Rosa nel Pugno e dintorni ( avrai rilevato che in tutto il suo pezzo non si parla mai di liberalismo, come se, senza liberalismo politico, potessero prosperare mercato e concorrenza come tecniche che si autoperpetuano per gemmazione; sarà anche bravo, ma politicamente non ha letto mai Einaudi e se lo ha letto non ne ha colto la lezione più profonda).
 
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